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venerdì 3 dicembre 2010

INTERVISTA ALL'INSEGNANTE - 1

Ecco alcune domande fatte a un’insegnante di classe prima elementare, relative a un bambino down di sette anni che presentava le seguenti problematiche: non sapeva leggere e scrivere, era molto agitato e spesso aggressivo, aveva problemi di socializzazione e non era accettato dagli altri.

D: Il bambino non sapeva leggere e scrivere. Lei e l’insegnante di sostegno come avete affrontato il problema?

R: Abbiamo proposto esercizi di scrittura, rispettando i suoi tempi. Gli abbiamo fatto copiare lettere o parole da alcune schede. Di tanto in tanto lo aiutavamo.
Il più delle volte, tuttavia, non riusciva a tenere in mano la penna per più di qualche minuto. Allora interrompevamo l’esercizio e lo riprendevamo dopo una pausa.


D: Perché avete subito iniziato dalla scrittura?

R: Perché con la classe abbiamo iniziato dalla scrittura. Era una prima elementare. Abbiamo cercato di far partecipare il bambino al programma della classe in cui si trovava, per dargli la possibilità di amalgamarsi maggiormente.

D: La trisomia 21 comporta un’ipotonia degli arti. Non avete pensato di allenare e preparare i suoi muscoli prima di iniziare la scrittura?

R: È proprio quello che cercavamo di fare con gli esercizi di scrittura. Ma era difficile, perché dopo alcuni tentativi iniziali non collaborava più e s’innervosiva. Quando si agitava diventava aggressivo e questo comportava anche un rischio per gli altri bambini.

D: E a questo punto cosa facevate?

R: Provavamo altre strategie. Gli chiedevamo di fare un disegno e, per stimolarlo, gli proponevamo immagini colorate da copiare. Prima lo facevamo noi, in modo che lui potesse imitarci.

D: Ma se rifiutava di scrivere, perché insistevate col disegno?

R: Aveva bisogno di esercitare i muscoli di braccia e mani. Per invogliarlo, gli promettevamo anche un premio. Anche in questo caso si rifiutava di disegnare, ma in cambio del premio che riceveva, ottenevamo da parte sua un comportamento meno aggressivo. Questo durante i primi mesi di scuola. Poi la situazione è peggiorata.

D: Ma se non faceva il disegno e non mostrava piacere a farlo, a cosa serviva il premio? Non aveva una motivazione. Non avete mai provato a proporgli un’attività che gli piacesse e in particolare che sapesse svolgere?

R: Abbiamo cercato di coinvolgerlo nel lavoro di gruppo con gli altri bambini. Ma è stata una pessima esperienza. Lui diventava ancora più aggressivo e gli altri bambini non riuscivano ad accettarlo perché rallentava il loro lavoro.

D: Cosa chiedevate di fare al bambino nei lavori di gruppo?

R: A seconda di quello che il gruppo si proponeva come obiettivo, gli si chiedeva di partecipare a ciò che facevano gli altri. Non era possibile. Un giorno, addirittura, ha preso le forbici che servivano al gruppo per il lavoretto di Natale e per dispetto ha tagliato le pagine del quaderno di uno dei bambini.

D: Quindi anche nei lavori di gruppo gli si chiedeva di svolgere compiti che non sapeva fare?

R: Facendolo stare in gruppo con gli altri bambini, speravamo trovasse l’occasione di imitarli nella scrittura e nel disegno.

D: Ma se già avevate visto che rifiutava di scrivere e disegnare, come avrebbe potuto farlo insieme agli altri?

R: Inizialmente alcuni compagni lo aiutavano.

D: Come?

R: Alcuni bambini, i più pazienti, si sedevano vicino a lui e gli mostravano come fare. Lui non rispondeva. A quel punto, questi bambini, per non rallentare eccessivamente il lavoro del gruppo, svolgevano al suo posto i compiti che erano stati assegnati a lui.

D: Prima, relativamente a questi lavoretti di Natale, mi ha parlato di forbici. A cosa servivano?

R: Tutti i disegni e le scritte natalizie preparate dai bambini, vennero ritagliate e appiccicate ai vetri delle finestre.

Nostre osservazioni
È opportuno partire dal presupposto che i bambini non possono imparare tutti la stessa cosa, nello stesso modo e nello stesso momento. La didattica tradizionale usa un metodo sommatorio-lineare, cioè prevede un apprendimento organizzato secondo una gerarchia dal più facile al più difficile. Essa presuppone che il grado di maggiore o minore difficoltà sia uguale per tutti, che questa gerarchia possa essere stabilita in partenza e che il percorso di apprendimento possa essere lo stesso per tutti gli alunni.
Si applica lo stesso metodo d’insegnamento per tutti i bambini per poi concentrare l’attenzione sui “non sa fare” dei singoli bambini in difficoltà e quindi intervenire con ripetuti esercizi sperando di rimediare alla singola incompetenza in questo modo.
Questo trascina il bambino in un vortice d’insuccessi e in una serie di attività ripetitive e mnemoniche, fini a se stesse. Questo metodo conduce il “bambino in difficoltà”, in particolare un bambino con deficit, a un generale rifiuto e porta l’insegnante a rassegnarsi alla frase “non c’è nulla da fare”.
Il metodo Cuomo, “Emozione di conoscere e Desiderio di esistere”, a cui rimandiamo, si basa su diverse pilastri. Eccone alcuni che rispondono bene alla situazione evidenziata nell’intervista:
  • Originale stile cognitivo: ciascun bambino ha modalità tipiche per apprendere.
  • Sa fare: è fondamentale incentivare la parte positiva, le competenze che il bambino possiede, per poi partire da queste.
  • Globalità: bisognerebbe far sì che il bambino non si soffermi su di una parte senza avere collegamento e significati nel contesto, nelle relazioni, nelle situazioni. Spesso ci si sofferma sul particolare troppo a lungo e si fa perdere il senso della circostanza.
  • Significazione: bisogna non far  fare attività senza scopo o fini a se stesse. È necessario tener conto della globalità e puntare sempre sui significati.

Per esempio, nel nostro caso, sarebbe stato opportuno potenziare i muscoli del bambino puntando sulle sue competenze, che non erano, al momento, la scrittura e il disegno.
L’insegnante ci ha detto che con le forbici ha tagliato le pagine del quaderno dell’amico e che lo ha fatto per dispetto. Usare la parola “dispetto” in questo caso, però, sembra eccessivo. Il suo comportamento aggressivo potrebbe derivare da due fattori: l’essere obbligato a fare ripetutamente cose in cui non riesce e non sentirsi desiderato dagli altri.
Il bambino in questo caso non è stato messo nelle condizioni di essere utile e quindi di essere una risorsa per i propri compagni. Sapeva usare le forbici e gli si sarebbe potuto proporre di collaborare al lavoro di gruppo tagliando i cartoncini, passando il materiale ai compagni ogni volta che gliel’avessero chiesto, mettendo la colla dietro i cartoncini e infine appiccicandoli alla finestra. Si tratta di attività psicomotorie che avrebbero permesso di potenziare i muscoli del bambino e non sarebbero state rifiutate, sia perché il bambino stesso ha dimostrato di esserne in grado, sia perché tali attività hanno uno scopo reale all’interno di un progetto globale. in cui ogni attività è collegata all’altra per un fine ultimo. In quel momento il bambino non sapeva scrivere e disegnare e tali compiti potevano essere svolti dai suoi compagni.
Così il bambino si sarebbe reso utile al gruppo. I compagni l’avrebbero percepito come risorsa e non come peso e questo avrebbe potuto innescare il processo d’integrazione nel gruppo.
L’empatia che in tal modo si sarebbe creata avrebbe stimolato la sfera emozionale del bambino, inducendolo a continuare in queste attività. Ci sarebbe stata un’integrazione di un percorso narrativo, emozionale e psicomotorio che sarebbe stato molto più utile di sedute di psicomotricità fatte di esercizi ripetitivi e fini a se stessi.
Questa integrazione avrebbe favorito una maturazione cognitiva del bambino e partendo da essa si sarebbe potuta potenziare la struttura razionale, che nel down è la parte più deficitaria.

2 commenti:

  1. Ciao a tutte.
    Sono un’insegnante di seconda elementare. Uno dei miei alunni ha la trisomia 21. Il bambino non può sempre partecipare alle attività di classe, perché in molti momenti viene “isolato” dall’insegnante di sostegno che gli fare esercizi indicati per la sua patologia.
    Come dice Giulia, in un altro commento, ho il dubbio che trattare questo bambino in maniera diversa dagli altri possa danneggiarlo emotivamente e allontanare gli altri compagni da lui.
    Tuttavia quando lo coinvolgiamo in lavori di gruppo, come raccontava anche la collega dell’intervista, lui spesso si rifiuta di collaborare e gli altri bambini cominciano a mostrare segni di insofferenza.
    Cosa mi consigliereste?

    Francesca

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  2. Ciao Francesca.

    Quale tipo di attività avete fatto insieme al bambino?
    È importante che ciò che gli viene fatto fare abbia sia uno scopo che un collegamento concreto al suo vissuto. Sarebbero da evitare, dunque, esercizi fini a se stessi, ripetitivi e senza rapporto con la sua esperienza quotidiana. Queste attività andrebbero poi supportate dalla vostra partecipazione emotiva. Voi dovreste inoltre seguire passo passo il procedimento, sottolineando ogni singola tappa e il collegamento dall’una all’altra. È importante considerare che un bambino down presenta una frammentazione a livello cognitivo. I suoi “circuiti sensoriali” sono scollegati a causa della patologia. È, dunque, fondamentale che l’insegnante aiuti il bambino a individuare i collegamenti fra un’azione e l’altra, sottolineandoli ed evidenziandoli. Importante per ottenere la sua attenzione sarà l’empatia che riuscirete a trasmettergli attraverso le vostre parole e il linguaggio del vostro corpo. Partendo dalla sfera emozionale, parte più sviluppata rispetto a quella razionale in un bambino down, riuscirete a contribuire alla ricostruzione di quest’ultima. Gli aspetti emozionale, narrativo e psicomotorio dovranno essere integrati e non separati.

    Per venire al quesito che mi ponete sia tu che Giulia, entrambe manifestate il dubbio che i vostri bambini, seguiti anche separatamente dall’insegnante di sostegno, rischino di venire isolati e dunque di non essere non trattati come gli altri.
    In realtà l’aiuto in questo caso è necessario. Si tratta di bambini in difficoltà e sia loro e sia i compagni dovrebbero arrivare alla consapevolezza di questo handicap. Peggio sarebbe far finta di nulla illudendosi di poter trattare questi bambini in maniera identica agli altri. Sarà proprio sulla base di questa consapevolezza che potranno essere create le giuste occasioni per far partecipare il bambino con deficit ad attività di gruppo. In queste, però, sarà opportuno proporre al bambino cose che lui sa fare, così potrà rendersi utile agli altri e sentirsi desiderato da loro. Questo lo porterà a continuare a voler fare.
    Se volete approfondire al meglio questi discorsi, vi invito a guardare il sito del professor Cuomo:
    http://rivistaemozione.scedu.unibo.it

    Ciao a tutte e due e a presto

    RispondiElimina